Categorie
Hoelderlin

Festa di pace

(Friedensfeier)

A Eugenio Borgna con stima e simpatia

Ho sempre letto con grande interesse i libri di Eugenio Borgna perché, pur trattando di psichiatria, spesso rievocano delle poesie. Quale fonte profonda della parola, nella poesia, si può rinvenire l’espressione che aiuta a cogliere noi stessi e quindi a porci in dialogo. Così, nell’ascolto dell’altro potrà arricchirsi il nostro vissuto.  Anche lo psichiatra, dedito ad ascoltare, è volto a rinvenire la parola che sveli i turbamenti dell’animo. Laborioso impegno, in quanto i dolori profondi, tendono a essere rimossi e, per difesa, ad avvolgersi nel silenzio.

Chiarezza emerge solo mediante un lavoro di scavo e allora ci soccorre la poesia. Il poeta esprime le radici emotive del suo essere e solo guidati dalle coordinate dell’interiorità noi riusciamo a vivere i contenuti della poesia. Coglie assai bene questa tematica Ungaretti fin dalla sua prima opera scritta nel pieno della guerra: Porto sepolto (1916):   ‘Quando nel silenzio / Trovo una parola / Scavata è nella mia vita come un abisso.’

E proprio questa prospettiva riecheggia nel libro di Eugenio  Borgna: NOI SIAMO UN COLLOQUIO (1999). Il titolo rimanda a un verso di Hölderlin, tratto dall’inno : FESTA DI PACE ;(FRIEDENSFEST) e così ho voluto rileggere con attenzione questa poesia, tra le più complesse dell’autore, per dedicargli i risultati di questa lettura.

FESTADI PACE è un  inno, scritto nel 1801/1802, in un periodo di fervida attività e di rilevanti avvenimenti storici.  Fu rinvenuta – a sorpresa -solo nel 1954, quando nell’Auditorium Maximun  di Tubinga, durante una conferenza Friedrich Beissner – uno dei maggiori esperti di Hölderlin- annunciò che avrebbe dato lettura di un manoscritto appena scoperto. Questa lirica si rivelò tanto fondamentale da riaccendere, con diverse connotazioni, il dibattito critico. 
Eppure, per quanto ricchi siano stati i contributi, poca rilevanza ha avuto la premessa che, eccezionalmente e solo per questo inno, il poeta antepone quale guida al significato di questa poesia.

“Vi prego di leggere questi fogli di buon grado. Così certamente non saranno né incomprensibili, né tantomeno irritanti. Ma se tuttavia qualcuno trovasse questa lingua troppo poco convenzionale, allora vi devo confessare: non posso fare altrimenti. In una bella giornata si può udire quasi ogni tipo di canto e la natura, dalla quale emerge, di nuovo in sé lo accoglie.
L ’autore intende offrire al pubblico un’intera raccolta di simili fogli, e questo, in certo senso, ha valore di un esempio.”

Al centro di questa introduzione troviamo l’affermazione che ci aiuta a inquadrare l’intera poesia: ‘Non posso fare altrimenti’; si tratta esattamente delle parole che Lutero pronunciò, alla fine della sua audizione, alla Dieta di Worms ,presieduta da Carlo V, imperatore del Sacro Romanio Impero, nel 1521. Il monaco agostiniano non smentì alcun argomento di quelle 95 tesi che aveva inchiodato -come si usava all’epoca- sul portone della cattedrale di Wittrenberga nel 1517. La frase finale con la quale ricusa di abiurare suona così: ‘Eccomi qui. Non posso fare altrimenti. Dio mi aiuti. Amen!’

Al di là della modernizzazione della chiesa, vogliamo anche ricordare che Lutero ha creato, con la sua traduzione della Bibbia, una lingua uniforme per tutti i tedeschi, in un certo senso ha ‘dato loro la parola’, consentendogli di leggerla e di interpretarla liberamente. Dalla parola poi è arrivato al canto – lo stesso passaggio che si articola nella poesia Festa di Pace- componendo diversi Lieder chiesastici.

Saranno poi i pietisti, una particolare corrente del protestantesimo, a interpretare in modo peculiare il suo messaggio. Questi ‘Stillen im Lande’ (I silenziosi del paese) vivevano per lo più in gruppi appartati e certo, in ragione di questo isolamento, il loro linguaggio poteva essere criptico. Anche la loro fede era complessa in quanto avevano  accolto antiche teorie chialistiche e millenariste. In base a queste credenze, Cristo avrebbe chiamato a sé tutti i giusti per sedere con loro a un banchetto celeste che sarebbe durato appunto 1000 anni prima che le porte del paradiso potessero aprirsi. La ‘sala’ dove questo banchetto si svolge è in aperta natura, sublime regno di dio. Questa premessa, nel suo più ampio significato, ci guiderà attraverso la poesia.

FESTA DI PACE

( Friedensfeier )

Di celestiale suono, dalla sommessa eco,
Colma di mutevoli e tenui sonorità
L’antica sala è arieggiata, abitata
Da spiriti beati, l’odore dei verdi tappeti
Pervade la nuvola gioiosa e più lontano rilucono
I frutti colmi e maturi e calici ornati d’oro
Con cura ordinati, in fila rigogliose,
A lato, qua e là, emergono
Sul terreno appianato i tavoli.
Infatti, provenendo da lontano,
Qui, nell’ora vespertina,
Amorevoli ospiti son convenuti.


E con la vista adombrata del tramonto penso,
Sorridendo per l’ardua opera del giorno,
Già di poterlo vedere, lui, il principe della festa.
Ma pur se ti gratifica, rinnegare la tua straniera terra,
E quando per la lunga, eroica tua marcia.
Abbassi gli occhi, obliato, nell’ombra tenue,
Assumi un volto amico e divieni a tutti noto, ma
L’ elevazione tua, quasi mette in ginocchio. Nulla
Ti sta innanzi, solo una certezza vale: mortale non sei.
Un saggio potrà qualche aspetto illuminarmi; ma
Dove, anche un dio appare
Là domina altra chiarezza.

Queste prime strofe descrivono la scena dove si svolge il convegno, dall’Ultima Cena si passa ora nello spazio aperto, alla chiesa del cuore, che allestisce un grande banchetto, per accogliere la natura non mortale del Principe della Festa.
I particolari descritti e l’atmosfera dominante fanno apparire questo principe di natura divina al punto da farci pensare a Cristo. Infatti, dopo lungo cammino assume un volto amico- è il momento atteso in cui la divinità si avvicina all’uomo- e con atto di venerazione ci mettiamo in ginocchio. Questa figura divina va oltre il sapere dei sapienti, per renderci edotti delle cose ultime. 

L’identificazione di questa figura è controversa, alcuni vi vedono Napoleone Bonaparte che dopo la pace di Campoformio (1797)

e di Lunéville (1801) pareva aver predisposto una pace duratura

Tanto che a Parigi si organizzò, in ricordo della presa della bastiglia

del 14 luglio 1801, una Festa della pace. L’ auspicio di pace  eterna pervadeva l’Europa ispira da uno scritto di Kant: Sulla pace eterna (1795). Ma sebbene anche gli eventi storici possano aver contribuito all’ispirazione, come abbiamo visto, sia l’introduzione che tutta l’atmosfera dell’inno suggeriscono un ambito di sacralità. 

Un legame religioso universale attraversa tutta la poesia come suggeriscono i seguenti versi della 3. strofa.

Eppur voi, benevoli giorni dell’innocenza,
Anche oggi portate festa, amati! e tutt’intorno
fiorisce, verso sera, lo spirito in questo silenzio…

Qui si affacciano, passatii giorni dell’infanzia, ombra e  silenzi vespertini che favoriscono l’incontro col divino:

Incline agli uomini con severa affabilità,
Là sotto la palma in Siria
Nel pressi della città, lieto sostavi alla fonte…

Anche questo ricordo pone il Principe della Festa nel solco della storia biblica. Qui si allude all’episodio quando Gesù chiede da bere alla samaritana: severo ma anche affabile. Pur nella sua sacralità si avvicina agli uomini chiedendo aiuto per soddisfare umana sete. Questo avvicinarsi del Dio provoca un quiete che diviene comune esperienza e dalla quale nasce la parola dell’intesa:

Ma può accadere, per una volta, che un dio scelga il quotidiano lavoro
Che i mortali svolgono e condivida degli umani la sorte.
Questa è la legge del destino, che tutti si esperiscano,
In modo che, tornata la quiete, anche un linguaggio sussista.

Così l’avvicinamento di Cristo ha creato un vincolo per l’umanità tutta e ha donato quella quiete che consente, attraverso la parola, l’intesa. Riaffiora qui la pace dell’animo anelata dai pietisti che dal silenzio della devozione fa derivare la parola del dialogo e del comprendersi. Poi, quasi al centro della composizione, la strofa più importante sul significato del linguaggio:

Fin dal mattino,
Da quando siamo colloquio e capaci di intesa,
Grande cognizione l’uomo ha avuto; presto però saremo canto.
E l’immagine del tempo dispiegata dal grande spirito
Come segno sta innanzi a noi e così tra lui e gli altri,
Un legame suo sussiste con le altre forze.
Non solo lui, i non nati, eterni.
Tutti ne recano il segno, così come le piante,
La madre terra, la luce e l’aria vi si identificano.
Infine dunque, sacre potenze è per voi 
Il segno d’amore, la testimonianza 
Che tutt’ora esistete, il giorno di festa.

Non sempre dunque siamo stati colloquio, bensì solo dal tempo primordiale di manifestazione dello spirito; ma la cognizione e l’intesa raggiunte sono unicamente premessa di quel canto che arricchirà armonia e coralità nell’identificazione col divino.
Si instaurerà cosi’ un legame che andrà oltre i tempi, riguarderà anche i non nati, la natura tutta, l’aria e la luce. Ma ben oltre questa universale intesa, come segno d’amore, l’umanità verrà santificata mediante la FESTA DI PACE.

Questo il significato espresso proprio al centro della poesia. FEST in tedesco è voce ancora più solenne del sinonimo FEIER. In questa pace raggiunta la parola autentica troverà la sua occasione per essere pronunciata.

Come si ricordava, molte sono le discussioni e le interpretazioni che questa poesia ha generato. Grande l’attenzione che hanno a lei dedicato anche i poeti dopo il ’45. In Hölderlin hanno trovato quel linguaggio ermetico che doveva caratterizzare anche la loro stessa scrittura. Dopo una guerra stravolta dall’olocausto si era alla ricerca di una parola che riuscisse a non confondere i carnefici con le vittime. Sarebbe stato un linguaggio ermetico che i nemici non avrebbero dovuto intendere. Così anche Paul Celan ricorda il linguaggio articolato di Hölderlin dedicandogli una poesia : Tübingen, Jänner (Tubinga, gennaio, 1961). Tubinga è la città dove Hölderlin trascorse in uno stato di obnubilamento mentale, gli ultimi anni prima della morte. Qui amorevolmente accudito dal falegname Zimmer, trovò ancora la vitalità per comporre le ultime interessanti poesie. Per queste scelse la rima, che sempre aveva trascurato. Il ripetersi del ritmo fisso poteva garantirgli di rispettare i confini oltre i quali si manifesta il de-lirio, il travalicamento della line retta del solco. Nel nebbioso gennaio, dalla torre di Hölderlin, Celan pensava di ripartire per trovare quella poesia che possa far vivere o sopravvivere. In questa disperata ricerca paragonerà la poesia a un messaggio lanciato nella bottiglia. Dobbiamo sempre tenerci pronti a rinvenire quel messaggio-seppur criptico- per trovare quella espressione che ci consenta di essere colloquio e possa magari darci forza per essere canto.

Categorie
Hoelderlin

ARCIPELAGO

Friedrich Hölderlin

– ( Archipelagus ) –

Per dare un titolo alla sua più bella e più lunga poesia ( 10 pagine, 293 versi esametri ) Hölderlin ha scelto un termine che, pur avendo radice greca, non era in uso nell’antichità, ma si impose nell’età moderna intorno al ‘700. Con questa definizione la poesia intende non solo un raggruppamento di isole, bensì tutta la estensione della Ionia, ovvero quelle vasta area del Mediterraneo dominata dalla cultura greca: dalla Colchide al Nilo, fino alle Colonne d’Ercole. 

Una nuova parola per indicare una nuova valenza della cultura antica che si lega alla propria intimità come pure alla situazione del suo tempo. Il rinnovarsi del propri valori non può prescindere dalla rinascita del proprio paese tanto da auspicare il divenire di una Germania ellenizzata.  L’armonia che quella cultura ha saputo creare consente una fruizione tale da conferire valore sia al vivere che al morire come la poesia indicherà nel finale.

Nel romanzo Hyperion(1797) , sullo sfondo della guerra greco-turca, il protagonista rivolgendosi a Bellarmino -appunto ‘anima bella’ in grado di comprendere sottili pensieri- formula quella famosa invettiva contro i tedeschi: ‘da sempre barbari’, cupi e senza grazia come un vaso gettato via. Proprio quel vaso, che i greci mirabilmente creavano e ornavano per conservare olio, acqua, vino e preziose essenze e metaforicamente (vas sapientie) anche il loro sapere.

Così, privilegiati dalla natura, dove le forze ctonie di mari e vulcani dopo aver sconvolto la terra con le loro esplosioni viscerali  hanno creato paesaggi di equilibrate armonie. Di questa armonia si è avvalsa la cultura greca tanto da essere in grado di ricostruire il proprio stato, la propria ricchezza e il proprio potere pur dopo gravi sconfitte  come quella subita dai persiani a Salamina e dai macedoni  a Cheronea.  Proprio dalla luminosa bellezza di questo mare e delle sue isole i greci hanno tratto la forza di far fiorire  la loro vita  e di riprendere ,espandendoli, i propri commerci. Nello svolgere queste considerazioni troviamo anche-evento raro in poesia – l’elogio del mercante. Al di là del guadagno, questa figura connette vicino e lontano, portando merci da paesi sconosciuti, accorcia le distanze, reca conoscenza di altri mondi e allarga così il sapere.

Ecco come esordisce questa articolata poesia:

Ancora tornano a te le gru e ancora le navi cercano
Di far rotta verso le tue rive? le auspicate brezze
Dei flutti placati ancora ti avvolgono, e il delfino attratto
Fuori dalle profondità il dorso porge al nuovo luminoso sole?
Fiorisce la Ionia? è giunto il tempo? Perché sempre in primavera
Quando si rinnova il cuore degli uomini e il primo amore 
Li rianima così come il ricordo di età auree
Allora a te vengo e nella tua quiete ti saluto, antico mondo!

La strofa inizia con una serie di interrogativi volti a stabilire se, dopo epoche tormentate, sia tornata la calma nel frastagliato arcipelago ionio e se col rifiorire della primavera sia possibile far ritorno a queste ‘età auree’ felici quanto il primo amore. 

Questo ritorno non sarà solo un gioco di memoria perché la storia coincide con una  ‘nuova primavera’ dell’animo . ‘Ancora’ segna oggi, come nel passato, la dimensione di una pacifica continuità:  ‘ancora’ è  sguardo al tempo antico che anima il presente.

Gli interrogativi hanno risposte positive , le gru sostano qui nel loro migrare, i naviganti  trovano sicuri approdi,  il delfino è mammifero  che vive nell’acqua ma ha bisogno di respirare e  per questo emerge in superficie offrendo il suo dorso al sole. Afrodite, anche lei nata dal mare, lo innalzò ad animale sacro. 

Dunque un passato, quello dell’arcipelago, ovvero dell’intera Ionia, che porge ricchezza di significati per il tempo presente e quello a venire. 

La poesia si articola in tre parti: l’esordio è un inno alla natura che ha creato equilibrio tra le forze telluriche, l’opera di Nettuno e quella di Vulcano si sono scontrati trovando infine armonia in un paesaggio di rara bellezza e di facile approdo per le navi e i mercanti.

La seconda parte è epica e ricostruisce quegli avvenimenti principali di una cultura che ha superato le sue crisi e, infine, un’ultima parte, torna il tono lirico. L’Ellade risulta intimamente legata al destino del poeta che auspica di trovare nella  testimonianza dei tempi antichi quella sintonia necessaria per il suo vivere e forse anche per il suo soccombere nelle ‘tue profondità’.

Ma nel frattempo, sin quando inizieremo a dar frutto,
Continuate a fiorire, voi, giardini della Ionia e fronde
Sulle nobili rovine di Atene. Nascondete alla luce del giorno il dolore!
Cingete allori, col vostro fogliame sempreverde, le colline!
I tumoli dei vostri morti laggiù a Maratona, dove i giovani
Vittoriosi morirono, e là nei campi di Cheronea.
Ove con le armi insanguinate gli ultimi ateniesi fuggirono.
Scappando innanzi al giorno della vergogna, su dai monti
Discende ogni giorno il lamento nella valle della pugna,
Là, dalle cime dell’Eta, acque sorgive fan risuonare la melodia del destino.
Ma tu, immortale, sebbene il greco canto più non 
Ti elogi come un tempo, per le tue onde, o dio marino!
Spesso, voglia tu, nel mio animo risuonare e così sulle acque
Si conserva vivace e impavido lo spirito, come nuotatore
Fa esercizio nella gioiosa vitalità dei forti e comprenda il mutare
E il divenire del linguaggio divino e quando il vortice del tempo,
Veemente, vorrà afferrarmi il capo e dolore e follia
Tra i mortali scuotono il mio umano esistere
Lascia che ricordi il silenzio delle tue profondità.

Mentre la strofa di esordio era punteggiata da interrogativi, ora dopo l’evocazione epica degli avvenimenti storici, la strofa finale è punteggiata da esclamativi; è stata raggiunta una certezza e la consapevolezza di ciò che resta da fare! Dopo la narrazione epica, nella strofa finale, si riaffaccia l’io lirico che si rispecchia nella parabola della storia greca qui tratteggiata  da due fondamentali momenti:la vittoria di Maratona contro i persiani e la sconfitta di Cheronea da parte del macedone Filippo II . Momenti cardinali entro i quali ha potuto fiorire la cultura greca. La parabola della civiltà ellenica dovrà essere riferimento nell’affrontare il tumulto del proprio tempo suscitato innanzitutto dalla rivoluzione francese. Per ritrovare le proprie forze il poeta immedesima il suo spirito con quello del nuotatore che nelle acque della Ionia ritrova la ‘gioiosa vitalità dei forti’. Così, quando dolore e follia scuoteranno ‘il mio umano esistere’ la memoria potrà riandare all’Arcipelago, carico di avvenimenti eppure avvolto in profondo silenzio.

Caro Claudio, questa è l’ultima poesia che insieme abbiamo letto e analizzato. Proprio ora ti ritrovo, nel leggere la strofa conclusiva. Hai sempre un po’ tenuto la vita a distanza perché ti accompagnava l’altrove della poesia e di tutta la letteratura che hai vissuto traducendola.

La tua casa sulle colline che costeggiano la piana di Maratona era un esilio che diventava un regno nel cuore di quell’Arcipelago dove trovavi ‘gioiosa vitalità’ per vivere e ‘profondo silenzio’ per morire. Là, infatti, avresti voluto che le tue ceneri fossero disperse ‘nel silenzio delle profondità’.