Segrete Elegie

– Rainer Maria Rilke –

A strapiombo sulla scogliera, camminando su stretti sentieri tra i grovigli della macchia mediterranea, che le mutevoli brezze marine rendono fragrante di resine e pini, Rilke certo  già pensava a quella che sarebbe stata l’opera della sua vita. Se nuovo doveva essere il contenuto, la forma avrebbe avuto le radici antiche dell’elegia.

Il poeta, mentre esalta nel titolo il luogo:  ELEGIE DUINESI  (1912-1922) attraverso la dedica rende omaggio all’ospite: Dalla proprietà della principessa Marie von Thurn und Taxis, ove‘Besitz’ (proprietà) può intendersi anche come qualità e patrimonio di cultura.

Un ampio carteggio testimonia la loro lunga amicizia e narra l’abitudine di tradurre, nelle fredde serate duinesi ,le poesie della VITA NOVA di Dante. Un lavoro importante, che stabilisce volontà di un nuovo inizio: Incipit Vita Nova! Così come Rilke l’aveva formulato nelle NUOVE POESIE  in apertura della seconda sezione(1906-1908) quando, nel guardare un torso antico di Apollo, esclama: Devi cambiare la tua vita!

Jacob Burckhardt, che il poeta aveva incontrato per caso a Parigi nel 1924, nella sua fondamentale opera: La cultura del Rinascimento in Italia (1860), aveva già indicato l’importanza  del ‘sommo poeta’ che si proietta nella cultura rinascimentale proprio con la  Vita Nova, mentre la Divina Commedia resta ancora del tutto calata nel mondo medioevale. Ecco allora risvegliarsi l’interesse per Dante, prima di allora poco presente sulla scena tedesca. Pertanto altri poeti come Stefan George (1912) e soprattutto Rudolf Borchard (1923-30) si dedicarono alla traduzione dell’opera dantesca. Anche Rilke dà prova di intuire il valore emergente del poeta fiorentino traducendo il sonetto: Deh pellegrini che pensosi andate…(1900). Il poeta si identifica con questi viandanti in quanto anche la sua esistenza sarà pervasa dai moti contrastanti della fuga e del ritorno per far fronte ai drammi del ‘secolo breve’ quando la totalità si riduce in frammenti e del cerchio, che ha perduto il proprio centro, restano solo come punti di fuga le tangenti.

Sulla scia del cammino di Dante, dove si intrecciano vicende terrene e confronti col divino, sembrano articolarsi i primi versi delle Elegie.

Chi, se gridassi, mi darebbe ascolto nelle schiere celesti? e ammesso che qualcuno, d’improvviso, mi  prendesse a cuore: svanire dovrei di fronte al suo preponderante esistere.

Il difficile compito sarà dunque quello di riuscire a porsi in relazione con le schiere ordinate degli angeli, mentre l’io, col suo grido disarticolato, mostra la propria fragilità al punto che anche nel caso lo essere celeste gli rivolgesse attenzione non potrebbe far altro che soccombere, privo di forze necessarie per affrontarlo.

Le elegie, tanto arduo è la descrizione dei sovvertimenti del suo tempo, saranno composte per frammenti che raccolgono le  diverse impressioni e le cognizioni raccolte nei vari  momenti della sua vita e soprattutto nei viaggi; così dopo i versi composti a Duino seguono quelli di Venezia- città centrale della sua poetica- di Ronda in Spagna, di Parigi: scenario di quella metropoli moderna, dove parrebbe più facile vivere, ma dove il protagonista del suo romanzo. I quaderni di Malte Laurids Brigge, vede la morte riproporsi in ogni angolo: dalla Salpetrière, alla sconosciuta annegata nella Senna , fino alla maschera mortuaria di Beethoven. Dopo i frammenti parigini si apre una crisi della scrittura tra le più lunghe, dal 1913 sino al1920, quando con una elegia dedicata all’infanzia riesce a riprendere il lavoro interrotto nel 1915 con con la IV Elegia, dove già si accenna al tema infantile:

…trovandosi nell’intervallo tra mondo e giocattolo…

Nel 1915 una serie di avvenimenti lo riporta al tema dell’infanzia come a una delle fasi costitutivie della personalità.

Così sosteneva l’amica di Rilke ,Ellen Key, con il suo libro Il secolo del bambino (1909) dal quale trasse ispirazione anche Maria Montessori.

Sull’età puberale vi era inoltre l’acuta testimonianza della grande amica Lou Andrea Salomè: Tre lettere a un ragazzo (1919); un saggio che già si ispirava a principi psicoanalitici. Questa figura di donna ebbe grande valore emancipativo per Rilke e come una delle prime psicoanaliste alla scuola di Freud lo mise in contatto col padre della psicoanalisi proprio nel 1013 in occasione del congresso di Monaco. L’anno successivo, Freud nel saggio Caducità (1915) descrive un suo incontro con l’allieva e ‘un giovane poeta’ che, avvilito dalla malinconia, non riesce ad apprezzare, durante la loro passeggiata in un parco settembrino, lanatura ancora vitale e fiorente. In un successivo incontro privato Freud considerò il poeta poco adatto al duraturo rapporto che la psicoanalisi richiede e infatti Rilke ne prese per sempre le distanze.

La parola apparteneva ai poeti che si realizzano attraverso la poesia;secondo Hofmannsthal la psicoanalisi andava scoprendo o ‘credeva di scoprire’ ciò che i letterati da tempo sapevano.

Indubbiamente però, tutte queste esperienze lo indussero a ripensare la propria infanzia dedicando a questo suo vissuto una elegia rimasta inedita, quasi fosse una segreta pagina di diario:

Infanzia

(LASS DIR, DASS KINDHEIT WAR…)

Lascia che l’infanzia vissuta, questa indicibile
fedeltà del cielo, non ti sia contraddetta dal destino.
persino al prigioniero che si rovina nel tetro carcere,
ha prestato segreto soccorso fino alla fine.

Perché per sempre trattiene il cuore.
Anche il malato, quando si irrigidisce e comprende
e già la stanza più non gli dà risposta perché ancor sana-,
e sanabili stanno intorno gli oggetti, febbricitanti, pure loro
malati, ma sanabili ancora, intorno a lui che è già perso-
persino lui dell’infanzia ancora fruisce. Pura, caducità
della natura, coltiva l’aiuola del cuore.

L’inizio della poesia è un sommesso imperativo: l’infanzia ha una componente celeste che continua a elargire forza.

E’ il momento che ci dona prospettiva infinita e il vigore di formulare un progetto autentico e duraturo: ‘coltiva l’aiuola del cuore’. Questo non significa-come la lirica dirà in seguito- che non vi siano angoscia o paure:

Non che sia innocente; la pia menzogna che l’avvolge
e imbelletta ha solo temporaneamente illuso.
Mai è più sicura di noi, né mai più tutelata;
nessuno tra gli dei valuta il suo peso.
Priva di ricetto come noi, come animali in inverno senza protezione.
Meno sicura ancora perché non conosce rifugi.
Esposta come fosse lei stessa minacciata. Senza riparo
come un incendio, come un gigante, come un veleno
come qualcosa che si aggira in una casa sospetta dalla porta sbarrata.

Altra eredità dell’infanzia è la paura che deriva dal non sentirsi tutelati.La mano protettiva delle madri a volte trema di incertezza ma al bambino restano le infinite risorse del gioco, dove con innumerevoli combinazioni, aprendosi una prospettiva infinita, si fa strada la speranza e il pericolo si capovolge in protezione. Sarà principalmente la bambola a offrire possibilità di identificazione, oggetto di  molteplici scambi di ruoli nati da innumerevoli fantasie.

Eppure, per una piena identificazione, anche la bambola andrà superata, diverrà estranea quando, intensa, maturerà la ricerca del proprio io. Una consapevolezza nuova che rende alieno ciò che prima era familiare , ludico oggetto.

E già corrompe la bambola, buona, giocattolo
poco prima ancora tenero,
ma ora, pur ancora in braccio, già come estranea spaventa.
Non di per sé, non per la sua povera, perdonabile estraneità,
no; per l’inclinazione del bambino verso tutto ciò che ha accolto.
Accolto in lunghi giorni di fiducia, nelle innumerevoli ore
di gioco continuo, quando il bambino di fronte al tu,
che senza invidia aveva creato, si cimentava e si distingueva
e faceva esperienza, distribuendo su entrambi le proprie forze,
le riserve che così nuove in lui si accumulavano.
Lontananze del gioco! Qui fruttuosa si tramandava
nella beata inventiva, più che nella tardiva crescita
ben oltre i nipoti -, la natura appagata!
….. O bambola,
remota figura- , come le stelle nella lontananza
divennero mondi, tu fai del bambino una costellazione.

Superata la bambola, nuovi orizzonti si aprono di appagamento e il bambino entra a far parte del mondo, che nelle sue prospettive si amplia sino a comprendere l’universo stellato. Ecco perché l’infanzia può dirsi  ‘fedeltà del cielo’ e, grazie alle sue risorse di speranza, è destinata a coltivare per sempre ‘l’aiuola del cuore’.

Un’ ultima segreta elegia sarà scritta da Rilke per l’effetto di un duplice richiamo. Dalla Russia, sua terra di emancipazione dove, sotto la guida di Lou Salomé,  si confrontò con la lingua e la cultura slava, giunge una lettera di Boris Pasternak . Rilke aveva conosciuto a Leningrado suo padre Leonid. Un pittore, che ci ha lasciato del poeta un suggestivo ritratto. Il giovane Boris, che come tutti i poeti russi di ultima generazione, vedeva in Rilke un modello, gli chiese di rispondere non solo a lui, ma anche alla poetessa Marina Cvetaeva Efron, che nel suo saggio Sulla Germania (1925) lo aveva esaltato come il più grande lirico tedesco. 

La loro relazione si limitò a una ‘corrispondenza’ senza che mai potesse realizzarsi il sempre auspicato incontro. In una lettera del 1926 Marina così scrive: ‘ Attraverso mondi, attraverso paesi, sempre in cammino senza mai incontro’ (1926). Non è solo la malattia di Rilke a generare impedimento, ma anche quella che, nella sua opera, spesso evoca come pathos della distanza, una lontananza che può rinsaldare la relazione più delle presenza. Questo tema lo accosta a un altro poeta contemporaneo che appunto teorizzava la ‘présence absente’, ovvero Paul Valéry .Con lui invece si stabilì un incontro a Muzot, nel Vallese,  durante la primavera del 1924. Per altro Valéry funge da anello di riferimento anche per Pasternak, in quanto aveva pubblicato le  sue poesie nella rivista che dirigeva: Commerce.  Da parte sua Rilke  per ampliare la propria potenzialità espressiva,  non solo aveva iniziato a scrivere raccolte in francese, da lui definita ‘langue pretée’, ma aveva anche iniziato a tradurre, fin dal 1921, prose e liriche di Valéry, inclusa la bellissima poesia: Cimitière marin.(1925). Qui si palesa una continua soglia di passaggio tra il cimitero e il moto ondoso del mare che lo lambisce, rendendolo in certo modo vivo, mentre i pini, mossi dalle brezze marine, offrono alle tombe il riposo dell’ombra . Incessantemente si varcano le soglie di vita e morte, passaggi continui che ritroveremo anche nell’elegia per Marina, nome che direttamente suscita la relazione col moto delle acque e colloca così la vita nella universale dimensione di un equilibrio cosmico che tollera e compensa la caducità.

A Marina Cvetaeva Efron

O le perdite nell’universo Marina, cascata di stelle!
Non le renderemo più gravi noi nel lancio verso una qualunque stella.
Nel tutto già ogni cosa si annumera,
Così anche chi cade, il sacro computo non riduce.
Ogni empito nella rinuncia rifluisce alle origini e risana.

La morte è contemplata dall’universo, è il suo rinnovamento, il suo ‘risanamento’. Le stelle lasciano una scia luminosa così che il loro precipitare diviene fonte di luce.

Onde, Marina, noi come mare! Profondità Marina, noi come cieli.
Terra, Marina, noi terra, noi mille volte primavera, come allodole
che un dirompente canto proietta nell’invisibilità.
Noi in lode lo intoniamo, già del tutto ci sovrasta,
d’improvviso il peso nostro atterrisce il canto che lamento diviene.
Ma pur così: lamento. Non sarebbe forse rinnovato elogio del profondo.

Come un gioco di parole il nome di Marina si associa al mare, simile al mare alterno, eterno di Valéry. Ma anche alla terra e al cielo, dove le allodole cantano per pura finalità di armonia e quindi non necessitano di visibilità. Ma il nostro canto – e qui torna l’intimo significato dell’elegia – gravato da cupi pensieri, diviene lamento. Ma pur questo lamento possiamo trasformarlo in elogio che sgorga dalla profondità del nostro essere; dalla disperazione si può risalire alla speranza e volgere in inno l’elegia.

Riscontriamo in questa ultima elegia un tono nuovo, una maggiore lievità delle immagini, che deriva dallo incontro di Rilke con il poeta francese, autore che con lui condivideva lunghi silenzi.

Nulla ci appartiene. Accostiamo lievi la mano intorno agli steli di fiori non recisi.
Come vidi lungo il Nilo a Kom-Ombo, così, Marina, privandosi dell’offerta, sacrificano i re.
Come gli angeli vanno per segnare le porte di chi verrà salvato, noi pure, sfioriamo d’intorno, teneri in apparenza. Oh quanto già lontani, oh, quanto distratti Marina pur nell’intimo motivo. Solo un cenno diamo, null’altro.

Questo brano caratterizza le modalità di relazione: il gesto che assumiamo in vita caratterizzerà anche la fine del nostro cammino. Come avviene nella cultura dell’antico Egitto dove con lievità le mani non recidono il fiore, ma ne proteggono la corolla. Nel Testamento (1920) breve diario frammentario, dove sono annotati i momenti di crisi per la ripresa delle ELEGIE, il viaggio in Egitto è ricordato con una impressione che ne caratterizza la cultura nella sua continuità di vita e morte: ‘Paesaggi di tale vastità da potervi risiedere anche dopo la morte , almeno per un po’ di tempo’. La lievità del gesto, la rinuncia è il vero sacrificio. Per i faraoni la privazione in vita porta alla sopravvivenza nell’altro regno. Non il possesso, ma la rinuncia è il vero sacrificio. Verranno poi, secondo la tradizione veterotestamentaria, gli angeli del Pesach a segnare le porte di coloro chiamati a mettersi in cammino per cercare la terra del dono. Sono solo segnali, cenni che preparano i grandi eventi. Anche l’intima relazione si connota ’con un cenno, nient’altro’ .

…Sai tu, quante volte
un cieco comando ci guidò attraverso il gelido atrio
di nuova rinascita…Guidò noi? Un corpo di occhi
che si sottrae sotto innumerevoli palpebre. Guidò
il cuore di tutta una generazione, naufragato in noi ,
verso la meta di uccelli migratori
guidò lo stormo, l’immagine della nostra oscillante trasformazione. 

Un cieco comando guida verso la trasformazione, un atrio gelido è la stazione che anticipa nuova rinascita. nell’allusione degli occhi che si sottraggono sotto innumerevoli palpebre Rilke anticipa i versi dell’epitaffio che scriverà per la sua tomba. Nel tedesco palpebra è Lid, con la stessa pronuncia di LIED, ovvero canto, poesia. Ecco allora la poesia diventare sostegno per la trasformazione nella vastità dei cieli.

La conclusione di questo canto è dedicata agli amanti.

Dal centro del Sempre, ove tu respiri e immagini
l’attimo fuggente li esclude.
( O come ti comprendo, femminile fiore dello stesso
sempreverde cespuglio. Come mi dissolvo forte nel
notturno vento, prossimo a sfiorarti.) Fin da remoti tempi
gli dei appresero a confondere le metà. Noi, trascinati nel vortice,
abbiamo raggiunto pienezza come il disco della luna.
Pur nel tempo che si abbrevia, pur nelle fasi di declino
nessuno più potrebbe farci maturare compiutezza se 
non il nostro solitario cammino attraverso l’insonne paesaggio.


(Muzot, 9 giugno 1926)

L’attimo fuggente prevale sulla continuità del ‘sempre’. E il contatto è nella dissolvenza del vento che sfiora un cespuglio sempreverde.

Eppure in questo lieve incontro vi è la pienezza della luna che, a differenza del sole, mai tramonta. Ma comunque la vera completezza resta un solitario cammino, come quello del lontano pellegrino dantesco, attraverso un paesaggio insonne che veglia, senza abbandonarci, nella euritmia dell’ universo.

Rilke morirà in sanatorio a Val Mont il 29 dicembre del 1926. Ecco il suo epitaffio:

Rosa, pura contraddizione,
essere il sonno di nessuno
sotto tante palpebre,

Pur chiusi gli occhi resta la memoria del suo canto come fosse ‘un paesaggio insonne’.

Marina Cvetaeva, dopo i drammatici avvenimenti della sua vita legati alla rivoluzione russa, dove il marito Serghei Efron morì soldato dell’armata bianca, lontana dai figli, esasperata dalle ristrettezze economiche, si tolse la vita nell’agosto del 1941 a Elabuga un villaggio sperduto tra le piane del Volga. Possiamo immaginare che si sarebbe congedata da Rilke con questi suoi versi:

Troppo in alto ti ho amato
Mi sono seppellita in cielo.