di Rainer Maria Rilke
O le perdite nell’universo Marina, cascata di stelle!
Non le renderemo più gravi noi nel lancio verso una qualunque – stella.
Nel tutto già ogni cosa si annumera,
Così anche chi cade, il sacro computo non riduce.
Ogni empito nella rinuncia rifluisce alle origini e risana.
La morte è contemplata dall’universo, è il suo rinnovamento, il suo ‘risanamento’. Le stelle lasciano una scia luminosa così che il loro precipitare diviene fonte di luce.
Onde, Marina, noi come mare! Profondità Marina, noi come cieli. Terra, Marina, noi terra, noi mille volte primavera, come allodole
che un dirompente canto proietta nell’invisibilità.
Noi in lode lo intoniamo, già del tutto ci sovrasta,
d’improvviso il peso nostro atterrisce il canto che lamento diviene. Ma pur così: lamento. Non sarebbe forse rinnovato elogio del profondo.
Come un gioco di parole il nome di Marina si associa al mare, simile al mare alterno, eterno di Valéry. Ma anche alla terra e al cielo, dove le allodole cantano per pura finalità di armonia e quindi non necessitano di visibilità. Ma il nostro canto – e qui torna l’intimo significato dell’elegia – gravato da cupi pensieri, diviene lamento. Ma pur questo lamento possiamo trasformarlo in elogio che sgorga dalla profondità del nostro essere; dalla disperazione si può risalire alla speranza e volgere in inno l’elegia.
Riscontriamo in questa ultima elegia un tono nuovo, una maggiore lievità delle immagini, che deriva dallo incontro di Rilke con il poeta francese, autore che con lui condivideva lunghi silenzi
Nulla ci appartiene. Accostiamo lievi la mano intorno agli steli di fiori non recisi.
Come vidi lungo il Nilo a Kom-Ombo, così, Marina, privandosi dell’offerta, sacrificano i re.
Come gli angeli vanno per segnare le porte di chi verrà salvato, noi pure, sfioriamo d’intorno, teneri in apparenza. Oh quanto già lontani, oh, quanto distratti Marina pur nell’intimo motivo. Solo un cenno diamo, null’altro.
Questo brano caratterizza le modalità di relazione: il gesto che assumiamo in vita caratterizzerà anche la fine del nostro cammino. Come avviene nella cultura dell’antico Egitto dove con lievità le mani non recidono il fiore, ma ne proteggono la corolla. Nel Testamento (1920) breve diario frammentario, dove sono annotati i momenti di crisi per la ripresa delle ELEGIE, il viaggio in Egitto è ricordato con una impressione che ne caratterizza la cultura nella sua continuità di vita e morte: ‘Paesaggi di tale vastità da potervi risiedere anche dopo la morte , almeno per un po’ di tempo’. La lievità del gesto, la rinuncia è il vero sacrificio. Per i faraoni la privazione in vita porta alla sopravvivenza nell’altro regno. Non il possesso, ma la rinuncia è il vero sacrificio. Verranno poi, secondo la tradizione veterotestamentaria, gli angeli del Pesach a segnare le porte di coloro chiamati a mettersi in cammino per cercare la terra del dono. Sono solo segnali, cenni che preparano i grandi eventi. Anche l’intima relazione si connota ’con un cenno, nient’altro’.
…Sai tu, quante volte
un cieco comando ci guidò attraverso il gelido atrio
di nuova rinascita…Guidò noi? Un corpo di occhi
che si sottrae sotto innumerevoli palpebre. Guidò
il cuore di tutta una generazione, naufragato in noi ,
verso la meta di uccelli migratori
guidò lo stormo, l’immagine della nostra oscillante trasformazione.
Un cieco comando guida verso la trasformazione, un atrio gelido è la stazione che anticipa nuova rinascita. nell’allusione degli occhi che si sottraggono sotto innumerevoli palpebre Rilke anticipa i versi dell’epitaffio che scriverà per la sua tomba. Nel tedesco palpebra è Lid, con la stessa pronuncia di LIED, ovvero canto, poesia. Ecco allora la poesia diventare sostegno per la trasformazione nella vastità dei cieli.
La conclusione di questo canto è dedicata agli amanti.
Dal centro del Sempre, ove tu respiri e immagini
l’attimo fuggente li esclude.
( O come ti comprendo, femminile fiore dello stesso
sempreverde cespuglio. Come mi dissolvo forte nel
notturno vento, prossimo a sfiorarti.) Fin da remoti tempi
gli dei appresero a confondere le metà. Noi, trascinati nel vortice,
abbiamo raggiunto pienezza come il disco della luna.
Pur nel tempo che si abbrevia, pur nelle fasi di declino
nessuno più potrebbe farci maturare compiutezza se
non il nostro solitario cammino attraverso l’insonne paesaggio.
(Muzot, 9 giugno 1926)
L’attimo fuggente prevale sulla continuità del ‘sempre’. E il contatto è nella dissolvenza del vento che sfiora un cespuglio sempreverde.
Eppure in questo lieve incontro vi è la pienezza della luna che, a differenza del sole, mai tramonta. Ma comunque la vera completezza resta un solitario cammino, come quello del lontano pellegrino dantesco,attraverso un paesaggio insonne che veglia, senza abbandonarci, nella euritmia dell’ universo.
Rilke morirà in sanatorio a Val Mont il 29 dicembre del 1926. Ecco il suo epitaffio:
Rosa, pura contraddizione,
essere il sonno di nessuno
sotto tante palpebre,
Pur chiusi gli occhi resta la memoria del suo canto come fosse ‘un paesaggio insonne’.
Marina Cvetaeva, dopo i drammatici avvenimenti della sua vita legati alla rivoluzione russa, dove il marito Serghei Efron morì soldato dell’armata bianca, lontana dai figli, esasperata dalle ristrettezze economiche, si tolse la vita nell’agosto del 1941 a Elabuga un villaggio sperduto tra le piane del Volga. Possiamo immaginare che si sarebbe congedata da Rilke con questi suoi versi:
Troppo in alto ti ho amato
Mi sono seppellita in cielo.
