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Goethe

Elegia di Marienbad

– J.W. Goethe –

E quando l’uomo muto divien nel suo dolore
Un dio mi guidò per dire quel che soffro.

Cosa mai potrò sperare nel rivederla,
Come fiore di questo giorno ancora non dischiuso?
Il paradiso, l’inferno mi stan di fronte;
Come oscilla il moto del mio animo!-
Senza più dubbio alcuno! Alla porta celeste si avvicina,
Elevandomi verso le sue braccia .
Così, allora, il paradiso ti accolse
Come se meritevole di eterno gaudio fossi;
Non ti restava desiderio, speranza, brama alcuna,
Ormai dell’anelito più intimo era raggiunta meta
E nel mirare questa bellezza senza pari
Ogni fonte di nostalgiche lacrime subito inaridiva.

Il bacio, l’ultimo, crudelmente soave, troncava
Sublime intreccio di amori avviluppati.
Ora s’affretta il piede, ora si blocca ad evitar la soglia,
Come se fiammante cherubino lo frenasse;
L’occhio con rimpianto il cammino oscuro fissa,
Volge indietro lo sguardo, sbarrata è ormai la porta.
E ora, in sé racchiuso, come se mai questo cuore
Anelito avesse avuto, mai ore soavi
In gara con tutti gli astri celesti verso alte mete
Accanto a lei luminosi momenti vissuto non avesse;
Ora disillusione, rimorso, rammarico e tristezza
Lo deprimono in soffocanti atmosfere.

Queste strofe rendono l’oscillare delle passioni. Con sottigliezza è colto il momento del varcar la soglia: il piede esita come frenato da fiammante cherubino. Nella Genesi questi angeli sono guardiani del paradiso  e impediscono all’uomo di farvi ritorno dopo il peccato originale; ecco quindi che lo sguardo volgendosi indietro trova sbarrata la porta. 

La soglia raffigura anche il delicato equilibrio del passaggio da un ambiente interno ,protetto e familiare, per andare verso le incognite del mondo esterno. Perduto il legame, la separazione ci sospinge nel vuoto di prospettive sconosciute.

Come per accogliere nell’atrio attendeva
E nel salir ogni scalino, cresceva mia delizia;
Anche dopo l’ultimo bacio mi inseguiva,
Per darmi, intenso, un bacio ancora; quello estremo;
Così fluttuante e nitida perdura immagine dell'amata,
Scritto a lettere di fuoco nel cuore che fedeltà serba.
Nel cuore che saldo come turrite mura
per lei esiste e in sé la custodisce,
E del suo perdurare si rallegra,
Solamente sole irradia se lei si svela,
E più libero si sente in confini tanto amati
E batte ancora per dirle grazie di ogni dono.

...
E per suo merito!- Quale timore intimo
Tedioso gravava su corpo e spirito;
Lo sguardo tutto imprigionato da terrifiche visioni
Nel desolato spazio di angosciante vuoto del cuore;
Ora, come un’alba, la speranza di una soglia familiare
All’apparir di lei nel sole dal tiepido chiarore.

Queste strofe descrivono come l’incontro sia concepito con le modalità di  una continua ascesa già mediante la concretezza degli scalini. Passato il momento della vicinanza, si accende l’intimità del cuore, il potere di una memoria che serba il valore degli eventi passati. Ma è una memoria, quindi un volgersi indietro, che convive con la speranza che guarda al futuro. Gli eventi sono a tal punto incatenati che solo a fine strofa troviamo un punto. Altrimenti i versi sono collegati da una virgola, ovvero un tipo di punteggiatura che non del tutto separa ma piuttosto enumera, allinea.

Nella divina quiete che voi quaggiù
-Così si legge- anima più che ragion pura,
Io paragono dell’amore la gaudente pace
Alla presenza della creatura più di tutto amata;
Il cuore serenità ritrova, e non c’è turbamento
Nel profondo dell’animo quando sento di esser suo.
Nella purezza del nostro petto aleggia anelito
Di dedicarsi, senza costrizione, per sola gratitudine,
A chi è più nobile, onesto, ancora sconosciuto,
Si svela a noi così chi mai vien nominato;
Questo per noi è: aver fede! - Di questi sacri vertici
Mi sento esser parte quando sono insieme a lei.
Davanti al suo sguardo come di  fronte al dominante sole,
Innanzi al suo respiro come nelle brezze a primavera.
Dilegua quel che a lungo fu duro ghiaccio,
L’egoismo nelle profonde forre invernali.
Nessuna protervia, alcuna testardaggine perdura,
Spaurano e fuggono via al suo apparire.

Ancora queste strofe descrivono la funzione quasi catartica dell’amata, che dalla dimensione terrestre assume tratti di carattere divino. Uno scabro paesaggio invernale, dominato da estesi ghiacciai e profonde forre, svanisce all’apparire della donna e dei valori che elargisce.  E’ quasi un richiamo a  quelli che saranno gli ultimi versi del secondo FAUST: ‘L’eterno femmineo ci innalza a sé attraendoci’. Nelle seguenti strofe le viene data la parola, ma non quella che lei realmente dice, bensì quella che il poeta le attribuisce affinché lui stesso possa trarne consolazione.

Sembra quasi lei possa dire: “Ora per ora
La vita ci viene offerta come dono amico,
Il tempo che fu, poche tracce ha lasciato,
Quello di domani conoscer non possiamo,
E se mai la sera mi incuteva paura,
Al tramontar del sole sentivo la gioia vissuta.
Allora seguimi e con saggezza lieta guarda
Negli occhi l’attimo! Senza indugiare!
Rapido affrontalo con benevolenza e slancio,
Così sarai gioioso nell’agire e nell’amare;
Ovunque ti troverai, sii te stesso, sempre come bambino,
Così sei totalità, insuperabile sempre.”

Diversamente dal FAUST, dove l’attimo fuggente si lega alla diabolica volontà di annullare il tempo in favore di una eterna giovinezza, qui l’amata suggerisce che ogni attimo, indipendentemente dalla sua caducità, può avere 

pienezza vitale. Il presente è vita piena e ci consente maturazione ed evoluzione come un bambino avviato alla crescita. Ma l’abbandono cancella ogni salvifica dimensione e così affiorano lacrime di disperazione.

Sgorgate dunque ancora e inarrestabili scorrete!
Ma questo intimo ardore mai smorzerete!
Già nel mio petto spasmi e sussulti si agitano violenti.
Perché morte e vita orribilmente si fan guerra:
Balsamiche erbe possono certo il corpo placare;
Ma allo spirito manca volontà e risoluzione.

…..

Qui abbandonatemi di viaggio fedeli compagni!
Solo lasciatemi alla roccia tra palude e muschio.
Continuate il cammino! Innanzi a voi un mondo aperto,
Vasta la terra, grandioso e sublime il cielo;
Osservate, ricercate, raccogliete le rarità
Della natura il segreto prudenti svelate.
L’universo è perduto, come lo son io stesso,
Io che un tempo fui degli dei il beniamino:
Mi misero alla prova affidandomi Pandora,
Tanto di doni ricca e di pericoli più ancora,
Sospinto mi hanno verso labbra prodighe di doni,
Poi separandomi, mi condannano all’ annientamento.

L’elegia si chiude nel totale abbandono, quello della donna, quello dei compagni che vengono esortati a continuare il cammino della vita. Viene qui ripresa l’atmosfera della poesia iniziale, dove Werther interrompe il filo dell’esistenza e quelli che han voluto persistere nel vivere non hanno poi tratto molti vantaggi dalla loro scelta. Anche gli dei hanno abbandonato il poeta, che amava definirsi loro Beniamino, per la ricchezza dei suoi talenti e le grandi opportunità offertegli. Ma ora gli hanno affidato Pandora, che, secondo la mitologia, non avrebbe dovuto aprire il vaso regalatole da Zeus.  Quando, per curiosità, disobbedì. dal vaso uscirono tutti i mali destinati ad affliggere il mondo.

Così l’elegia si conclude con l’annientamento senza volgersi in inno; eppure riprendendo alla lettera il mito greco, la speranza restò nascosta nel vaso dischiuso dalla dea e,  in questa trilogia  la dimensione del riscatto e del superamento della crisi è affidata all’epilogo dell’ultimo componimento.