Mi sono molto piaciute le ‘canzonacce’ di Giorgio Galli; il cammino della poesia è andare sempre oltre come se anche le parole si muovessero (Leopardi)
Elisabetta Potthoff
Mi sono molto piaciute le ‘canzonacce’ di Giorgio Galli; il cammino della poesia è andare sempre oltre come se anche le parole si muovessero (Leopardi)
Elisabetta Potthoff
A Eugenio Borgna con stima e simpatia
Ho sempre letto con grande interesse i libri di Eugenio Borgna perché, pur trattando di psichiatria, spesso rievocano delle poesie. Quale fonte profonda della parola, nella poesia, si può rinvenire l’espressione che aiuta a cogliere noi stessi e quindi a porci in dialogo. Così, nell’ascolto dell’altro potrà arricchirsi il nostro vissuto. Anche lo psichiatra, dedito ad ascoltare, è volto a rinvenire la parola che sveli i turbamenti dell’animo. Laborioso impegno, in quanto i dolori profondi, tendono a essere rimossi e, per difesa, ad avvolgersi nel silenzio.
Chiarezza emerge solo mediante un lavoro di scavo e allora ci soccorre la poesia. Il poeta esprime le radici emotive del suo essere e solo guidati dalle coordinate dell’interiorità noi riusciamo a vivere i contenuti della poesia. Coglie assai bene questa tematica Ungaretti fin dalla sua prima opera scritta nel pieno della guerra: Porto sepolto (1916): ‘Quando nel silenzio / Trovo una parola / Scavata è nella mia vita come un abisso.’
E proprio questa prospettiva riecheggia nel libro di Eugenio Borgna: NOI SIAMO UN COLLOQUIO (1999). Il titolo rimanda a un verso di Hölderlin, tratto dall’inno : FESTA DI PACE ;(FRIEDENSFEST) e così ho voluto rileggere con attenzione questa poesia, tra le più complesse dell’autore, per dedicargli i risultati di questa lettura.
FESTADI PACE è un inno, scritto nel 1801/1802, in un periodo di fervida attività e di rilevanti avvenimenti storici. Fu rinvenuta – a sorpresa -solo nel 1954, quando nell’Auditorium Maximun di Tubinga, durante una conferenza Friedrich Beissner – uno dei maggiori esperti di Hölderlin- annunciò che avrebbe dato lettura di un manoscritto appena scoperto. Questa lirica si rivelò tanto fondamentale da riaccendere, con diverse connotazioni, il dibattito critico.
Eppure, per quanto ricchi siano stati i contributi, poca rilevanza ha avuto la premessa che, eccezionalmente e solo per questo inno, il poeta antepone quale guida al significato di questa poesia.
“Vi prego di leggere questi fogli di buon grado. Così certamente non saranno né incomprensibili, né tantomeno irritanti. Ma se tuttavia qualcuno trovasse questa lingua troppo poco convenzionale, allora vi devo confessare: non posso fare altrimenti. In una bella giornata si può udire quasi ogni tipo di canto e la natura, dalla quale emerge, di nuovo in sé lo accoglie.
L ’autore intende offrire al pubblico un’intera raccolta di simili fogli, e questo, in certo senso, ha valore di un esempio.”
Al centro di questa introduzione troviamo l’affermazione che ci aiuta a inquadrare l’intera poesia: ‘Non posso fare altrimenti’; si tratta esattamente delle parole che Lutero pronunciò, alla fine della sua audizione, alla Dieta di Worms ,presieduta da Carlo V, imperatore del Sacro Romanio Impero, nel 1521. Il monaco agostiniano non smentì alcun argomento di quelle 95 tesi che aveva inchiodato -come si usava all’epoca- sul portone della cattedrale di Wittrenberga nel 1517. La frase finale con la quale ricusa di abiurare suona così: ‘Eccomi qui. Non posso fare altrimenti. Dio mi aiuti. Amen!’
Al di là della modernizzazione della chiesa, vogliamo anche ricordare che Lutero ha creato, con la sua traduzione della Bibbia, una lingua uniforme per tutti i tedeschi, in un certo senso ha ‘dato loro la parola’, consentendogli di leggerla e di interpretarla liberamente. Dalla parola poi è arrivato al canto – lo stesso passaggio che si articola nella poesia Festa di Pace- componendo diversi Lieder chiesastici.
Saranno poi i pietisti, una particolare corrente del protestantesimo, a interpretare in modo peculiare il suo messaggio. Questi ‘Stillen im Lande’ (I silenziosi del paese) vivevano per lo più in gruppi appartati e certo, in ragione di questo isolamento, il loro linguaggio poteva essere criptico. Anche la loro fede era complessa in quanto avevano accolto antiche teorie chialistiche e millenariste. In base a queste credenze, Cristo avrebbe chiamato a sé tutti i giusti per sedere con loro a un banchetto celeste che sarebbe durato appunto 1000 anni prima che le porte del paradiso potessero aprirsi. La ‘sala’ dove questo banchetto si svolge è in aperta natura, sublime regno di dio. Questa premessa, nel suo più ampio significato, ci guiderà attraverso la poesia.
( Friedensfeier )
Di celestiale suono, dalla sommessa eco,
Colma di mutevoli e tenui sonorità
L’antica sala è arieggiata, abitata
Da spiriti beati, l’odore dei verdi tappeti
Pervade la nuvola gioiosa e più lontano rilucono
I frutti colmi e maturi e calici ornati d’oro
Con cura ordinati, in fila rigogliose,
A lato, qua e là, emergono
Sul terreno appianato i tavoli.
Infatti, provenendo da lontano,
Qui, nell’ora vespertina,
Amorevoli ospiti son convenuti.
E con la vista adombrata del tramonto penso,
Sorridendo per l’ardua opera del giorno,
Già di poterlo vedere, lui, il principe della festa.
Ma pur se ti gratifica, rinnegare la tua straniera terra,
E quando per la lunga, eroica tua marcia.
Abbassi gli occhi, obliato, nell’ombra tenue,
Assumi un volto amico e divieni a tutti noto, ma
L’ elevazione tua, quasi mette in ginocchio. Nulla
Ti sta innanzi, solo una certezza vale: mortale non sei.
Un saggio potrà qualche aspetto illuminarmi; ma
Dove, anche un dio appare
Là domina altra chiarezza.
Queste prime strofe descrivono la scena dove si svolge il convegno, dall’Ultima Cena si passa ora nello spazio aperto, alla chiesa del cuore, che allestisce un grande banchetto, per accogliere la natura non mortale del Principe della Festa.
I particolari descritti e l’atmosfera dominante fanno apparire questo principe di natura divina al punto da farci pensare a Cristo. Infatti, dopo lungo cammino assume un volto amico- è il momento atteso in cui la divinità si avvicina all’uomo- e con atto di venerazione ci mettiamo in ginocchio. Questa figura divina va oltre il sapere dei sapienti, per renderci edotti delle cose ultime.
L’identificazione di questa figura è controversa, alcuni vi vedono Napoleone Bonaparte che dopo la pace di Campoformio (1797)
e di Lunéville (1801) pareva aver predisposto una pace duratura
Tanto che a Parigi si organizzò, in ricordo della presa della bastiglia
del 14 luglio 1801, una Festa della pace. L’ auspicio di pace eterna pervadeva l’Europa ispira da uno scritto di Kant: Sulla pace eterna (1795). Ma sebbene anche gli eventi storici possano aver contribuito all’ispirazione, come abbiamo visto, sia l’introduzione che tutta l’atmosfera dell’inno suggeriscono un ambito di sacralità.
Un legame religioso universale attraversa tutta la poesia come suggeriscono i seguenti versi della 3. strofa.
Eppur voi, benevoli giorni dell’innocenza,
Anche oggi portate festa, amati! e tutt’intorno
fiorisce, verso sera, lo spirito in questo silenzio…
Qui si affacciano, passatii giorni dell’infanzia, ombra e silenzi vespertini che favoriscono l’incontro col divino:
Incline agli uomini con severa affabilità,
Là sotto la palma in Siria
Nel pressi della città, lieto sostavi alla fonte…
Anche questo ricordo pone il Principe della Festa nel solco della storia biblica. Qui si allude all’episodio quando Gesù chiede da bere alla samaritana: severo ma anche affabile. Pur nella sua sacralità si avvicina agli uomini chiedendo aiuto per soddisfare umana sete. Questo avvicinarsi del Dio provoca un quiete che diviene comune esperienza e dalla quale nasce la parola dell’intesa:
Ma può accadere, per una volta, che un dio scelga il quotidiano lavoro
Che i mortali svolgono e condivida degli umani la sorte.
Questa è la legge del destino, che tutti si esperiscano,
In modo che, tornata la quiete, anche un linguaggio sussista.
Così l’avvicinamento di Cristo ha creato un vincolo per l’umanità tutta e ha donato quella quiete che consente, attraverso la parola, l’intesa. Riaffiora qui la pace dell’animo anelata dai pietisti che dal silenzio della devozione fa derivare la parola del dialogo e del comprendersi. Poi, quasi al centro della composizione, la strofa più importante sul significato del linguaggio:
Fin dal mattino,
Da quando siamo colloquio e capaci di intesa,
Grande cognizione l’uomo ha avuto; presto però saremo canto.
E l’immagine del tempo dispiegata dal grande spirito
Come segno sta innanzi a noi e così tra lui e gli altri,
Un legame suo sussiste con le altre forze.
Non solo lui, i non nati, eterni.
Tutti ne recano il segno, così come le piante,
La madre terra, la luce e l’aria vi si identificano.
Infine dunque, sacre potenze è per voi
Il segno d’amore, la testimonianza
Che tutt’ora esistete, il giorno di festa.
Non sempre dunque siamo stati colloquio, bensì solo dal tempo primordiale di manifestazione dello spirito; ma la cognizione e l’intesa raggiunte sono unicamente premessa di quel canto che arricchirà armonia e coralità nell’identificazione col divino.
Si instaurerà cosi’ un legame che andrà oltre i tempi, riguarderà anche i non nati, la natura tutta, l’aria e la luce. Ma ben oltre questa universale intesa, come segno d’amore, l’umanità verrà santificata mediante la FESTA DI PACE.
Questo il significato espresso proprio al centro della poesia. FEST in tedesco è voce ancora più solenne del sinonimo FEIER. In questa pace raggiunta la parola autentica troverà la sua occasione per essere pronunciata.
Come si ricordava, molte sono le discussioni e le interpretazioni che questa poesia ha generato. Grande l’attenzione che hanno a lei dedicato anche i poeti dopo il ’45. In Hölderlin hanno trovato quel linguaggio ermetico che doveva caratterizzare anche la loro stessa scrittura. Dopo una guerra stravolta dall’olocausto si era alla ricerca di una parola che riuscisse a non confondere i carnefici con le vittime. Sarebbe stato un linguaggio ermetico che i nemici non avrebbero dovuto intendere. Così anche Paul Celan ricorda il linguaggio articolato di Hölderlin dedicandogli una poesia : Tübingen, Jänner (Tubinga, gennaio, 1961). Tubinga è la città dove Hölderlin trascorse in uno stato di obnubilamento mentale, gli ultimi anni prima della morte. Qui amorevolmente accudito dal falegname Zimmer, trovò ancora la vitalità per comporre le ultime interessanti poesie. Per queste scelse la rima, che sempre aveva trascurato. Il ripetersi del ritmo fisso poteva garantirgli di rispettare i confini oltre i quali si manifesta il de-lirio, il travalicamento della line retta del solco. Nel nebbioso gennaio, dalla torre di Hölderlin, Celan pensava di ripartire per trovare quella poesia che possa far vivere o sopravvivere. In questa disperata ricerca paragonerà la poesia a un messaggio lanciato nella bottiglia. Dobbiamo sempre tenerci pronti a rinvenire quel messaggio-seppur criptico- per trovare quella espressione che ci consenta di essere colloquio e possa magari darci forza per essere canto.
Friedrich Hölderlin
– ( Archipelagus ) –
Per dare un titolo alla sua più bella e più lunga poesia ( 10 pagine, 293 versi esametri ) Hölderlin ha scelto un termine che, pur avendo radice greca, non era in uso nell’antichità, ma si impose nell’età moderna intorno al ‘700. Con questa definizione la poesia intende non solo un raggruppamento di isole, bensì tutta la estensione della Ionia, ovvero quelle vasta area del Mediterraneo dominata dalla cultura greca: dalla Colchide al Nilo, fino alle Colonne d’Ercole.
Una nuova parola per indicare una nuova valenza della cultura antica che si lega alla propria intimità come pure alla situazione del suo tempo. Il rinnovarsi del propri valori non può prescindere dalla rinascita del proprio paese tanto da auspicare il divenire di una Germania ellenizzata. L’armonia che quella cultura ha saputo creare consente una fruizione tale da conferire valore sia al vivere che al morire come la poesia indicherà nel finale.
Nel romanzo Hyperion(1797) , sullo sfondo della guerra greco-turca, il protagonista rivolgendosi a Bellarmino -appunto ‘anima bella’ in grado di comprendere sottili pensieri- formula quella famosa invettiva contro i tedeschi: ‘da sempre barbari’, cupi e senza grazia come un vaso gettato via. Proprio quel vaso, che i greci mirabilmente creavano e ornavano per conservare olio, acqua, vino e preziose essenze e metaforicamente (vas sapientie) anche il loro sapere.
Così, privilegiati dalla natura, dove le forze ctonie di mari e vulcani dopo aver sconvolto la terra con le loro esplosioni viscerali hanno creato paesaggi di equilibrate armonie. Di questa armonia si è avvalsa la cultura greca tanto da essere in grado di ricostruire il proprio stato, la propria ricchezza e il proprio potere pur dopo gravi sconfitte come quella subita dai persiani a Salamina e dai macedoni a Cheronea. Proprio dalla luminosa bellezza di questo mare e delle sue isole i greci hanno tratto la forza di far fiorire la loro vita e di riprendere ,espandendoli, i propri commerci. Nello svolgere queste considerazioni troviamo anche-evento raro in poesia – l’elogio del mercante. Al di là del guadagno, questa figura connette vicino e lontano, portando merci da paesi sconosciuti, accorcia le distanze, reca conoscenza di altri mondi e allarga così il sapere.
Ecco come esordisce questa articolata poesia:
Ancora tornano a te le gru e ancora le navi cercano
Di far rotta verso le tue rive? le auspicate brezze
Dei flutti placati ancora ti avvolgono, e il delfino attratto
Fuori dalle profondità il dorso porge al nuovo luminoso sole?
Fiorisce la Ionia? è giunto il tempo? Perché sempre in primavera
Quando si rinnova il cuore degli uomini e il primo amore
Li rianima così come il ricordo di età auree
Allora a te vengo e nella tua quiete ti saluto, antico mondo!
La strofa inizia con una serie di interrogativi volti a stabilire se, dopo epoche tormentate, sia tornata la calma nel frastagliato arcipelago ionio e se col rifiorire della primavera sia possibile far ritorno a queste ‘età auree’ felici quanto il primo amore.
Questo ritorno non sarà solo un gioco di memoria perché la storia coincide con una ‘nuova primavera’ dell’animo . ‘Ancora’ segna oggi, come nel passato, la dimensione di una pacifica continuità: ‘ancora’ è sguardo al tempo antico che anima il presente.
Gli interrogativi hanno risposte positive , le gru sostano qui nel loro migrare, i naviganti trovano sicuri approdi, il delfino è mammifero che vive nell’acqua ma ha bisogno di respirare e per questo emerge in superficie offrendo il suo dorso al sole. Afrodite, anche lei nata dal mare, lo innalzò ad animale sacro.
Dunque un passato, quello dell’arcipelago, ovvero dell’intera Ionia, che porge ricchezza di significati per il tempo presente e quello a venire.
La poesia si articola in tre parti: l’esordio è un inno alla natura che ha creato equilibrio tra le forze telluriche, l’opera di Nettuno e quella di Vulcano si sono scontrati trovando infine armonia in un paesaggio di rara bellezza e di facile approdo per le navi e i mercanti.
La seconda parte è epica e ricostruisce quegli avvenimenti principali di una cultura che ha superato le sue crisi e, infine, un’ultima parte, torna il tono lirico. L’Ellade risulta intimamente legata al destino del poeta che auspica di trovare nella testimonianza dei tempi antichi quella sintonia necessaria per il suo vivere e forse anche per il suo soccombere nelle ‘tue profondità’.
Ma nel frattempo, sin quando inizieremo a dar frutto,
Continuate a fiorire, voi, giardini della Ionia e fronde
Sulle nobili rovine di Atene. Nascondete alla luce del giorno il dolore!
Cingete allori, col vostro fogliame sempreverde, le colline!
I tumoli dei vostri morti laggiù a Maratona, dove i giovani
Vittoriosi morirono, e là nei campi di Cheronea.
Ove con le armi insanguinate gli ultimi ateniesi fuggirono.
Scappando innanzi al giorno della vergogna, su dai monti
Discende ogni giorno il lamento nella valle della pugna,
Là, dalle cime dell’Eta, acque sorgive fan risuonare la melodia del destino.
Ma tu, immortale, sebbene il greco canto più non
Ti elogi come un tempo, per le tue onde, o dio marino!
Spesso, voglia tu, nel mio animo risuonare e così sulle acque
Si conserva vivace e impavido lo spirito, come nuotatore
Fa esercizio nella gioiosa vitalità dei forti e comprenda il mutare
E il divenire del linguaggio divino e quando il vortice del tempo,
Veemente, vorrà afferrarmi il capo e dolore e follia
Tra i mortali scuotono il mio umano esistere
Lascia che ricordi il silenzio delle tue profondità.
Mentre la strofa di esordio era punteggiata da interrogativi, ora dopo l’evocazione epica degli avvenimenti storici, la strofa finale è punteggiata da esclamativi; è stata raggiunta una certezza e la consapevolezza di ciò che resta da fare! Dopo la narrazione epica, nella strofa finale, si riaffaccia l’io lirico che si rispecchia nella parabola della storia greca qui tratteggiata da due fondamentali momenti:la vittoria di Maratona contro i persiani e la sconfitta di Cheronea da parte del macedone Filippo II . Momenti cardinali entro i quali ha potuto fiorire la cultura greca. La parabola della civiltà ellenica dovrà essere riferimento nell’affrontare il tumulto del proprio tempo suscitato innanzitutto dalla rivoluzione francese. Per ritrovare le proprie forze il poeta immedesima il suo spirito con quello del nuotatore che nelle acque della Ionia ritrova la ‘gioiosa vitalità dei forti’. Così, quando dolore e follia scuoteranno ‘il mio umano esistere’ la memoria potrà riandare all’Arcipelago, carico di avvenimenti eppure avvolto in profondo silenzio.
Caro Claudio, questa è l’ultima poesia che insieme abbiamo letto e analizzato. Proprio ora ti ritrovo, nel leggere la strofa conclusiva. Hai sempre un po’ tenuto la vita a distanza perché ti accompagnava l’altrove della poesia e di tutta la letteratura che hai vissuto traducendola.
La tua casa sulle colline che costeggiano la piana di Maratona era un esilio che diventava un regno nel cuore di quell’Arcipelago dove trovavi ‘gioiosa vitalità’ per vivere e ‘profondo silenzio’ per morire. Là, infatti, avresti voluto che le tue ceneri fossero disperse ‘nel silenzio delle profondità’.
O le perdite nell’universo Marina, cascata di stelle!
Non le renderemo più gravi noi nel lancio verso una qualunque – stella.
Nel tutto già ogni cosa si annumera,
Così anche chi cade, il sacro computo non riduce.
Ogni empito nella rinuncia rifluisce alle origini e risana.
La morte è contemplata dall’universo, è il suo rinnovamento, il suo ‘risanamento’. Le stelle lasciano una scia luminosa così che il loro precipitare diviene fonte di luce.
Onde, Marina, noi come mare! Profondità Marina, noi come cieli. Terra, Marina, noi terra, noi mille volte primavera, come allodole
che un dirompente canto proietta nell’invisibilità.
Noi in lode lo intoniamo, già del tutto ci sovrasta,
d’improvviso il peso nostro atterrisce il canto che lamento diviene. Ma pur così: lamento. Non sarebbe forse rinnovato elogio del profondo.
Come un gioco di parole il nome di Marina si associa al mare, simile al mare alterno, eterno di Valéry. Ma anche alla terra e al cielo, dove le allodole cantano per pura finalità di armonia e quindi non necessitano di visibilità. Ma il nostro canto – e qui torna l’intimo significato dell’elegia – gravato da cupi pensieri, diviene lamento. Ma pur questo lamento possiamo trasformarlo in elogio che sgorga dalla profondità del nostro essere; dalla disperazione si può risalire alla speranza e volgere in inno l’elegia.
Riscontriamo in questa ultima elegia un tono nuovo, una maggiore lievità delle immagini, che deriva dallo incontro di Rilke con il poeta francese, autore che con lui condivideva lunghi silenzi
Nulla ci appartiene. Accostiamo lievi la mano intorno agli steli di fiori non recisi.
Come vidi lungo il Nilo a Kom-Ombo, così, Marina, privandosi dell’offerta, sacrificano i re.
Come gli angeli vanno per segnare le porte di chi verrà salvato, noi pure, sfioriamo d’intorno, teneri in apparenza. Oh quanto già lontani, oh, quanto distratti Marina pur nell’intimo motivo. Solo un cenno diamo, null’altro.
Questo brano caratterizza le modalità di relazione: il gesto che assumiamo in vita caratterizzerà anche la fine del nostro cammino. Come avviene nella cultura dell’antico Egitto dove con lievità le mani non recidono il fiore, ma ne proteggono la corolla. Nel Testamento (1920) breve diario frammentario, dove sono annotati i momenti di crisi per la ripresa delle ELEGIE, il viaggio in Egitto è ricordato con una impressione che ne caratterizza la cultura nella sua continuità di vita e morte: ‘Paesaggi di tale vastità da potervi risiedere anche dopo la morte , almeno per un po’ di tempo’. La lievità del gesto, la rinuncia è il vero sacrificio. Per i faraoni la privazione in vita porta alla sopravvivenza nell’altro regno. Non il possesso, ma la rinuncia è il vero sacrificio. Verranno poi, secondo la tradizione veterotestamentaria, gli angeli del Pesach a segnare le porte di coloro chiamati a mettersi in cammino per cercare la terra del dono. Sono solo segnali, cenni che preparano i grandi eventi. Anche l’intima relazione si connota ’con un cenno, nient’altro’.
…Sai tu, quante volte
un cieco comando ci guidò attraverso il gelido atrio
di nuova rinascita…Guidò noi? Un corpo di occhi
che si sottrae sotto innumerevoli palpebre. Guidò
il cuore di tutta una generazione, naufragato in noi ,
verso la meta di uccelli migratori
guidò lo stormo, l’immagine della nostra oscillante trasformazione.
Un cieco comando guida verso la trasformazione, un atrio gelido è la stazione che anticipa nuova rinascita. nell’allusione degli occhi che si sottraggono sotto innumerevoli palpebre Rilke anticipa i versi dell’epitaffio che scriverà per la sua tomba. Nel tedesco palpebra è Lid, con la stessa pronuncia di LIED, ovvero canto, poesia. Ecco allora la poesia diventare sostegno per la trasformazione nella vastità dei cieli.
La conclusione di questo canto è dedicata agli amanti.
Dal centro del Sempre, ove tu respiri e immagini
l’attimo fuggente li esclude.
( O come ti comprendo, femminile fiore dello stesso
sempreverde cespuglio. Come mi dissolvo forte nel
notturno vento, prossimo a sfiorarti.) Fin da remoti tempi
gli dei appresero a confondere le metà. Noi, trascinati nel vortice,
abbiamo raggiunto pienezza come il disco della luna.
Pur nel tempo che si abbrevia, pur nelle fasi di declino
nessuno più potrebbe farci maturare compiutezza se
non il nostro solitario cammino attraverso l’insonne paesaggio.
(Muzot, 9 giugno 1926)
L’attimo fuggente prevale sulla continuità del ‘sempre’. E il contatto è nella dissolvenza del vento che sfiora un cespuglio sempreverde.
Eppure in questo lieve incontro vi è la pienezza della luna che, a differenza del sole, mai tramonta. Ma comunque la vera completezza resta un solitario cammino, come quello del lontano pellegrino dantesco,attraverso un paesaggio insonne che veglia, senza abbandonarci, nella euritmia dell’ universo.
Rilke morirà in sanatorio a Val Mont il 29 dicembre del 1926. Ecco il suo epitaffio:
Rosa, pura contraddizione,
essere il sonno di nessuno
sotto tante palpebre,
Pur chiusi gli occhi resta la memoria del suo canto come fosse ‘un paesaggio insonne’.
Marina Cvetaeva, dopo i drammatici avvenimenti della sua vita legati alla rivoluzione russa, dove il marito Serghei Efron morì soldato dell’armata bianca, lontana dai figli, esasperata dalle ristrettezze economiche, si tolse la vita nell’agosto del 1941 a Elabuga un villaggio sperduto tra le piane del Volga. Possiamo immaginare che si sarebbe congedata da Rilke con questi suoi versi:
Troppo in alto ti ho amato
Mi sono seppellita in cielo.
Lascia che l’infanzia vissuta, questa indicibile
fedeltà del cielo, non ti sia contraddetta dal destino.
Persino al prigioniero che si rovina nel tetro carcere,
ha prestato segreto soccorso fino alla fine. Perché
per sempre trattiene il cuore.
Anche il malato, quando si irrigidisce e comprende
e già la stanza più non gli dà risposta perché ancor sana-,
e sanabili stanno intorno gli oggetti, febbricitanti, pure loro malati,
ma sanabili ancora, intorno a lui che è già perso- persino lui dell’infanzia ancora fruisce. Pura, caducità della natura, coltiva l’aiuola del cuore.
L’inizio della poesia è un sommesso imperativo: l’infanzia ha una componente celeste che continua a elargire forza.
(Lass dir, dass Kindheit war…)
E’ il momento che ci dona prospettiva infinita e il vigore di formulare un progetto autentico e duraturo: ‘coltiva l’aiuola del cuore’. Questo non significa-come la lirica dirà in seguito- che non vi siano angoscia o paure:
Non che sia innocente; la pia menzogna che l’avvolge
e imbelletta ha solo temporaneamente illuso.
Mai è più sicura di noi, né mai più tutelata;
nessuno tra gli dei valuta il suo peso.
Priva di ricetto come noi, come animali in inverno senza protezione.
Meno sicura ancora perché non conosce rifugi.
Esposta come fosse lei stessa minacciata. Senza riparo
come un incendio, come un gigante, come un veleno
come qualcosa che si aggira in una casa sospetta dalla porta sbarrata.
Altra eredità dell’infanzia è la paura che deriva dal non sentirsi tutelati. La mano protettiva delle madri a volte trema di incertezza ma al bambino restano le infinite risorse del gioco, dove con innumerevoli combinazioni, aprendosi una prospettiva infinita, si fa strada la speranza e il pericolo si capovolge in protezione. Sarà principalmente la bambola a offrire possibilità di identificazione, oggetto di molteplici scambi di ruoli nati da innumerevoli fantasie.
Eppure, per una piena identificazione, anche la bambola andrà superata, diverrà estranea quando, intensa, maturerà la ricerca del proprio io. Una consapevolezza nuova che rende alieno ciò che prima era familiare , ludico oggetto.
E già corrompe la bambola, buona, giocattolo poco prima ancora tenero,
ma ora, pur ancora in braccio, già come estranea spaventa.
Non di per sé, non per la sua povera, perdonabile estraneità,no;
per l’inclinazione del bambino verso tutto ciò che ha accolto.
Accolto in lunghi giorni di fiducia, nelle innumerevoli ore
di gioco continuo, quando il bambino di fronte al tu,
che senza invidia aveva creato, si cimentava e si distingueva
e faceva esperienza, distribuendo su entrambi le proprie forze,
le riserve che così nuove in lui si accumulavano.
Lontananze del gioco! Qui fruttuosa si tramandava
nella beata inventiva, più che nella tardiva crescita
ben oltre i nipoti -, la natura appagata!
.. O bambola,
remota figura- , come le stelle nella lontananza
divennero mondi, tu fai del bambino una costellazione.
Superata la bambola, nuovi orizzonti si aprono di appagamento e il bambino entra a far parte del mondo, che nelle sue prospettive si amplia sino a comprendere l’universo stellato. Ecco perché l’infanzia può dirsi ‘fedeltà del cielo’ e, grazie alle sue risorse di speranza, è destinata a coltivare per sempre ‘l’aiuola del cuore’.
Dal dolore di un amoroso congedo – paragonato alla morte – Goethe, per uscire dal labirinto delle passioni e dello scalpore suscitato, sente il bisogno di tornare alla sua più nota opera letteraria per decantare le proprie sofferenze.
Di nuovo, ombra tanto compianta, osi
Mostrarti alla luce del giorno
Per incontrarmi su campi di nuova fioritura,
Senza temere il mio sguardo.
E’ come se tu vivessi agli albori,
Dove rugiada sul prato entrambi inebria,
E dopo le noiose fatiche quotidiane,
Del sole ultimo raggio ci rallegra;
Io per restare scelto, tu per disparire.
Hai voluto andare innanzi – senza molto aver perduto.
…
Tu sorridi amico, sensibile, con tratto educato:
Orribile congedo ti ha reso famoso,
Onorato abbiamo la tua miserevole sventura,
Qui ci hai lasciato per piangere e gioire;
Poi nuovamente un cammino incerto
Delle passioni si è fatto labirinto:
E noi avviluppati in tanti dolori,
Abbiamo sofferto infine la separazione -mortale congedo!
Commovente suona il canto del poeta
Che invita a negar morte dell’abbandono!
Soffocato da questi dolori anche da propria colpa generati
A un dio mi rivolgo per esprimere congedo tanto doloroso!
Possiamo rilevare come, per descrivere e lenire il suo dolore, Goethe già nelle ultime righe della poesia citi un altro suo personaggio, ovvero TORQUATO TASSO, protagonista dell’omonimo dramma. La sua battuta viene esplicitamente citata all’inizio della seguente ELEGIA che con maggiori dettagli illustra la sua senile passione. Ricordiamo che questa battuta del Tasso è famosa perché ripetutamente citata da Freud che tuttavia nel riferirla commetteva un ‘lapsus’ significativo, cioè sostituiva al termine dio il termine ‘parola’ , sulla quale, non a caso, ha costruito la sua psicoanalisi.
E quando l’uomo muto divien nel suo dolore
Un dio mi guidò per dire quel che soffro.
Cosa mai potrò sperare nel rivederla,
Come fiore di questo giorno ancora non dischiuso?
Il paradiso, l’inferno mi stan di fronte;
Come oscilla il moto del mio animo!-
Senza più dubbio alcuno! Alla porta celeste si avvicina,
Elevandomi verso le sue braccia .
Così, allora, il paradiso ti accolse
Come se meritevole di eterno gaudio fossi;
Non ti restava desiderio, speranza, brama alcuna,
Ormai dell’anelito più intimo era raggiunta meta
E nel mirare questa bellezza senza pari
Ogni fonte di nostalgiche lacrime subito inaridiva.
Il bacio, l’ultimo, crudelmente soave, troncava
Sublime intreccio di amori avviluppati.
Ora s’affretta il piede, ora si blocca ad evitar la soglia,
Come se fiammante cherubino lo frenasse;
L’occhio con rimpianto il cammino oscuro fissa,
Volge indietro lo sguardo, sbarrata è ormai la porta.
E ora, in sé racchiuso, come se mai questo cuore
Anelito avesse avuto, mai ore soavi
In gara con tutti gli astri celesti verso alte mete
Accanto a lei luminosi momenti vissuto non avesse;
Ora disillusione, rimorso, rammarico e tristezza
Lo deprimono in soffocanti atmosfere.
…
Queste strofe rendono l’oscillare delle passioni. Con sottigliezza è colto il momento del varcar la soglia: il piede esita come frenato da fiammante cherubino. Nella Genesi questi angeli sono guardiani del paradiso e impediscono all’uomo di farvi ritorno dopo il peccato originale; ecco quindi che lo sguardo volgendosi indietro trova sbarrata la porta.
La soglia raffigura anche il delicato equilibrio del passaggio da un ambiente interno ,protetto e familiare, per andare verso le incognite del mondo esterno. Perduto il legame, la separazione ci sospinge nel vuoto di prospettive sconosciute.
Come per accogliere nell’atrio attendeva E nel salir ogni scalino, cresceva mia delizia; Anche dopo l’ultimo bacio mi inseguiva, Per darmi, intenso, un bacio ancora; quello estremo; Così fluttuante e nitida perdura immagine dell'amata, Scritto a lettere di fuoco nel cuore che fedeltà serba. Nel cuore che saldo come turrite mura per lei esiste e in sé la custodisce, E del suo perdurare si rallegra, Solamente sole irradia se lei si svela, E più libero si sente in confini tanto amati E batte ancora per dirle grazie di ogni dono. ...
E per suo merito!- Quale timore intimo Tedioso gravava su corpo e spirito; Lo sguardo tutto imprigionato da terrifiche visioni Nel desolato spazio di angosciante vuoto del cuore; Ora, come un’alba, la speranza di una soglia familiare All’apparir di lei nel sole dal tiepido chiarore.
Queste strofe descrivono come l’incontro sia concepito con le modalità di una continua ascesa già mediante la concretezza degli scalini. Passato il momento della vicinanza, si accende l’intimità del cuore, il potere di una memoria che serba il valore degli eventi passati. Ma è una memoria, quindi un volgersi indietro, che convive con la speranza che guarda al futuro. Gli eventi sono a tal punto incatenati che solo a fine strofa troviamo un punto. Altrimenti i versi sono collegati da una virgola, ovvero un tipo di punteggiatura che non del tutto separa ma piuttosto enumera, allinea.
Nella divina quiete che voi quaggiù -Così si legge- anima più che ragion pura, Io paragono dell’amore la gaudente pace Alla presenza della creatura più di tutto amata; Il cuore serenità ritrova, e non c’è turbamento Nel profondo dell’animo quando sento di esser suo. Nella purezza del nostro petto aleggia anelito Di dedicarsi, senza costrizione, per sola gratitudine, A chi è più nobile, onesto, ancora sconosciuto, Si svela a noi così chi mai vien nominato; Questo per noi è: aver fede! - Di questi sacri vertici Mi sento esser parte quando sono insieme a lei. Davanti al suo sguardo come di fronte al dominante sole, Innanzi al suo respiro come nelle brezze a primavera. Dilegua quel che a lungo fu duro ghiaccio, L’egoismo nelle profonde forre invernali. Nessuna protervia, alcuna testardaggine perdura, Spaurano e fuggono via al suo apparire.
Ancora queste strofe descrivono la funzione quasi catartica dell’amata, che dalla dimensione terrestre assume tratti di carattere divino. Uno scabro paesaggio invernale, dominato da estesi ghiacciai e profonde forre, svanisce all’apparire della donna e dei valori che elargisce. E’ quasi un richiamo a quelli che saranno gli ultimi versi del secondo FAUST: ‘L’eterno femmineo ci innalza a sé attraendoci’. Nelle seguenti strofe le viene data la parola, ma non quella che lei realmente dice, bensì quella che il poeta le attribuisce affinché lui stesso possa trarne consolazione.
Sembra quasi lei possa dire: “Ora per ora La vita ci viene offerta come dono amico, Il tempo che fu, poche tracce ha lasciato, Quello di domani conoscer non possiamo, E se mai la sera mi incuteva paura, Al tramontar del sole sentivo la gioia vissuta. Allora seguimi e con saggezza lieta guarda Negli occhi l’attimo! Senza indugiare! Rapido affrontalo con benevolenza e slancio, Così sarai gioioso nell’agire e nell’amare; Ovunque ti troverai, sii te stesso, sempre come bambino, Così sei totalità, insuperabile sempre.”
…
Diversamente dal FAUST, dove l’attimo fuggente si lega alla diabolica volontà di annullare il tempo in favore di una eterna giovinezza, qui l’amata suggerisce che ogni attimo, indipendentemente dalla sua caducità, può avere
pienezza vitale. Il presente è vita piena e ci consente maturazione ed evoluzione come un bambino avviato alla crescita. Ma l’abbandono cancella ogni salvifica dimensione e così affiorano lacrime di disperazione.
Sgorgate dunque ancora e inarrestabili scorrete! Ma questo intimo ardore mai smorzerete! Già nel mio petto spasmi e sussulti si agitano violenti. Perché morte e vita orribilmente si fan guerra: Balsamiche erbe possono certo il corpo placare; Ma allo spirito manca volontà e risoluzione.
…..
Qui abbandonatemi di viaggio fedeli compagni! Solo lasciatemi alla roccia tra palude e muschio. Continuate il cammino! Innanzi a voi un mondo aperto, Vasta la terra, grandioso e sublime il cielo; Osservate, ricercate, raccogliete le rarità Della natura il segreto prudenti svelate. L’universo è perduto, come lo son io stesso, Io che un tempo fui degli dei il beniamino: Mi misero alla prova affidandomi Pandora, Tanto di doni ricca e di pericoli più ancora, Sospinto mi hanno verso labbra prodighe di doni, Poi separandomi, mi condannano all’ annientamento.
L’elegia si chiude nel totale abbandono, quello della donna, quello dei compagni che vengono esortati a continuare il cammino della vita. Viene qui ripresa l’atmosfera della poesia iniziale, dove Werther interrompe il filo dell’esistenza e quelli che han voluto persistere nel vivere non hanno poi tratto molti vantaggi dalla loro scelta. Anche gli dei hanno abbandonato il poeta, che amava definirsi loro Beniamino, per la ricchezza dei suoi talenti e le grandi opportunità offertegli. Ma ora gli hanno affidato Pandora, che, secondo la mitologia, non avrebbe dovuto aprire il vaso regalatole da Zeus. Quando, per curiosità, disobbedì. dal vaso uscirono tutti i mali destinati ad affliggere il mondo.
Così l’elegia si conclude con l’annientamento senza volgersi in inno; eppure riprendendo alla lettera il mito greco, la speranza restò nascosta nel vaso dischiuso dalla dea e, in questa trilogia la dimensione del riscatto e del superamento della crisi è affidata all’epilogo dell’ultimo componimento.
La passione genera dolori!- Chi rende pace
A un cuore angosciato, dalla perdita colpito?
Dove sono le ore, rapide tanto nel dileguarsi?
Per una grande bellezza fosti eletto invano!
Offuscato lo spirito, confuse le intenzioni
Ecco il mondo sublime ai sensi sottrarsi!
Allora musica si libra su angeliche ali,
Infinito si fonde intreccio di note a milioni,
Assolute pervadono l’essenza dell’uomo,
Per colmarlo di bellezza senza fine:
L’occhio si vela, intende con nostalgia più sottile
Il divino valore del pianto come dei suoni.
E così, alleviato. il cuore subito avverte
Che ancora pulsa, batte e vuol vivere ancora,
Nella pura gratitudine di così ricco dono
Docile risponde mentre tutto si abbandona,
In sé avvertendo – che possa perdurare –
Duplice una felicità delle note e dell’amore.
Vediamo in questo epilogo chiaramente l’elegia culminare nell’inno, nella riacquisizione di un’armonia e di una dimensione sublime favorita dalle ‘angeliche ali’ delle note. Qui il poeta è ispirato in particolare dalla pianista polacca Maria Szymanoska e proprio a Marienbad sentì le sue esibizioni al pianoforte per poi invitarla spesso a Weimar. Così, l’ultimo Goethe intuisce che sarà la musica ad ampliare la risonanza della parola e infatti, non a caso, l’Ottocento sarà il grande secolo dell’opera.
Il poeta stesso aveva pensato di far musicare il suo FAUST da Wolfgang Amadeus Mozart, il compositore che più stimava come risulta dalle conversazioni con Eckermann. Molte riserve aveva invece nei riguardi di Beethoven e anche di Schubert, che pure aveva trascritto nella musica dei LIEDER diverse poesie di Goethe.
Ma Mozart- come sappiamo- volle scegliere altre strade e invece della cupa seduzione di FAUST, privilegiò il libretto di Da Ponte con un DON GIOVANNI vivace e incalzante. Uno spettacolo troppo scabroso per la Vienna cattolica e pertanto fu portato in scena a Praga nell’ottobre del 1787.
E alla fastosa prima praghese assistette anche il vecchio Casanova, proveniente dal castello di Waldstein a Dux. Il grande seduttore, amico del Da Ponte per via delle giovanili scorribande veneziane, volle riscrivere il quintetto del 2.atto. Ecco un altro scrittore che avverte il bisogno di legare la propria parola alla musica. Una musica che aveva consentito al vecchio Goethe di ritrovare gioia e estasi di un amore dolorosamente perduto.